Vent’anni passati a correre dietro a un pallone, con le stigmate da predestinato, come tutti lo definivano nel periodo con la maglia della Roma. Valerio Trani è estro puro. Talento forse non sempre espresso, incastonato negli occhi di un ragazzo che sogna ancora, di un ragazzo che quando ha la sfera tra i piedi ti aspetti sempre possa inventarsi qualcosa.

Valerio, sarebbe troppo facile partire dalla Roma.Iniziamo parlando di quello che c’è stato prima dei giallorossi.

La passione del pallone è iniziata fin da piccolo, quasi spontaneamente, anche grazie a papà,che il calcio lo ha sempre seguito come tifoso. Sognavo la Roma e Totti, tanto che a quattro anni ho subito provato ad iscrivermi a Scuola Calcio, ma non avevo ancora l’età giusta e dovetti momentaneamente ripiegare sul Judo. La prima squadra è stata il Quarto Miglio, nel mio quartiere. Da lì Morena, poi nuovamente dove tutto era iniziato, prima di ricevere la chiamata della Roma.

Ti sei subito reso conto di avere qualcosa che i tuoi compagni non erano in grado di esprimere?

In verità, il primo anno alla Roma non è stato facile. Forse anche per la troppa voglia di vestire quei colori, ma non riuscivo a ingranare con i compagni e posso dire di non aver realizzato quasi niente. Dalla stagione successiva sono riuscito a entrare bene nei meccanismi di quell’ambiente, comprendendo quanto fosse importante ogni singolo allenamento e la preparazione.

C’è stato un momento in cui di te si parlava come di un predestinato. Tu questo lo percepivi?

In realtà non ho mai ascoltato tutto quello che su di me veniva detto al di fuori di Trigoria, neanche quando si è iniziato a parlare male. Sì, i complimenti facevano piacere,ma non me ne curavo molto. Ho sempre e solo pensato a quel che avrei dovuto fare in campo, soprattutto dai Giovanissimi Nazionali in poi, nel periodo dove ritengo di essere cresciuto maggiormente. Però, per come sono fatto, preferivo non comprare i giornali o leggere il mio nome, perché non mi avrebbe fatto bene.

Cosa ti è rimasto impresso dell’ambiente Roma?

L’importanza dell’allenamento. In quegli anni, mi sentivo migliorato ogni volta che uscivo dal campo. Lì a Trigoria è stato un continuo crescere, anche grazie a tecnici come Roberto Muzzi. Poi sicuramente gli allenamenti con la prima squadra, nel periodo di Zeman e Garcia. Essere marcato da Benatia e Castan, ricevere un passaggio da Totti… Sono sensazioni indelebili.

Tra le maglie che hai indossato, c’è anche quella della Nazionale. Cosa si prova a vestire quei colori?

È un’emozione bellissima, soprattutto quando entri in campo e senti le note dell’inno di Mameli, senza contare che mi sono anche tolto la soddisfazione di segnare undici gol in tre anni! L’atmosfera che si crea prima delle partite è unica,nonostante io sia un ragazzo che quando inizia la gara riesce a staccare completamente dalla realtà che lo circonda e si concentri solamente su quello che deve fare in campo.

Il momento in cui ti sei emozionato maggiormente?

Con l’Under 17 azzurra, contro l’Inghilterra. Ho i brividi anche ora che ne parlo! Penso che quello sia stato il punto più alto che abbia raggiunto.

Dopo Roma, Torino. Un’esperienza che però non andò a buon fine.

Fu una scelta sbagliata. Avevo fatto la preparazione a Roma ed ero arrivato lì, con un anno in meno rispetto ai miei compagni, in una squadra già strutturata e con un reparto avanzato completo. Non a caso, tanti di quelli che componevano quella squadra ora sono nel professionismo e quell’anno vinsero lo scudetto Primavera.Trovai poco spazio e a gennaio decisi di andarmene.

Poi Latina e Frosinone.

Latina è stata una parentesi: giocai tre partite, poi risentii di una mononucleosi che aveva colpito tutto il gruppo, che incise parecchio sulla mia condizione fisica. A Frosinone, invece, ho vissuto una situazione ambigua. Ho auto qualche problema con la società, non ne ho compreso alcune scelte. Degli errori li avrò sicuramente commessi anche io, perché ammetto di essere iniziato a maturare veramente sono in questa ultima stagione.

Ecco, il City. Come è arrivata la chiamata della società?

Avevo iniziato il ritiro a Fondi, ma volevo fortemente questa categoria. La chiamata della società mi ha fatto bene, anche perché non stavo vivendo una situazione personale bellissima, per via delle ultime esperienze. Questo è un mondo totalmente diverso, rispetto al settore giovanile. Non solo per quanto riguardagli avversari, ma soprattutto per quanto concerne i compagni di squadra. In Primavera si è tutti sullo stesso piano, qui lo spogliatoio conta, perché ti trovi vicino a persone come Carnevali, Martinelli e Citro, che sanno darti un consiglio e le cui parole hanno un peso specifico importante.

Se ripercorri mentalmente la stagione, cosa pensi sia mancato?

Sicuramente un po’di esperienza e fortuna. Qualche errore lo abbiamo commesso anche noi. E qui,rispetto al settore giovanile, ogni sbaglio lo paghi. Io sicuramente avrei potuto dare qualcosa in più, anche in termini di gol. Purtroppo alcune situazioni mi hanno penalizzato, come i problemi al ginocchio avuti a dicembre.Però penso di aver sempre dato tutto, quando sono stato chiamato in causa, e di aver dimostrato che a questa squadra voglio veramente bene.

Allontaniamoci un attimo dal campo. Che ragazzo è Valerio Trani?

La maggior parte del mio tempo lo passo con Sofia, la mia ragazza. Il resto con gli amici di sempre, nel quartiere. Sono ancora molto legato ai miei affetti più cari e all’ambiente dove sono cresciuto.

I tuoi amici ti hanno mai visto come quello che stava riuscendo a realizzare un sogno?

Sì e ne parliamo spesso. Io in effetti ero l’unico che oltre la scuola faceva qualcosa. Però sono situazioni particolari, dove anche l’elemento più insignificante può cambiare il corso degli eventi: basta una risposta non data, un atteggiamento frainteso. Forse è anche difficile da spiegare. Bisogna trovarsi in certe situazioni per poterle capire. Io so quello che è successo, perché l’ho vissuto.

Nel cassetto c’è ancora qualche sogno da realizzare?

Quello di giocare a calcio ci sarà sempre, anche quando tutto sarà finito. Io mi sento cresciuto dopo questa stagione, perché anche solamente parlare e confrontarti con compagni più grandi ti aiuta. Sicuramente chi fa il tragitto al contrario,passando da una prima squadra a un settore giovanile, è aiutato. Qui impari la cultura del lavoro e il rispetto. Mi serviva uno spogliatoio che mi mettesse sui binari giusti.

Dei compagni che hai avuto, quale ti ha impressionato di più?

Tecnicamente Daniele Verde, ma il legame più grande l’ho instaurato con Nicolò Barella, con cui ho condiviso gli anni in Nazionale. Eravamo veramente legati, tanto da esserci fatti lo stesso tatuaggio. È una cosa rara, perché nell’ambiente del settore giovanile è difficile creare legami veri: c’è una competitività altissima.Davanti dicono una cosa, dietro un’altra. Forse per questo ho avuto qualche problema, perché sono un ragazzo che quando deve parlare lo fa in maniera diretta. Almeno guardo negli occhi i miei interlocutori.